Giancarlo Marzorati, architetto, ci illustra il suo pensiero sul modo di intendere l’architettura e il design, ma soprattutto racconta come ritiene che il progettista possa intervenire nelle città sempre più globali, spesso estranee e indifferenti alle persone
Viviamo un momento particolare: per l’estetica, la società, il costume, i modi di fare, di vivere, di comportarsi. Emozioni e comportamenti sono notevolmente influenzati dalla società in cui viviamo. E questa evolve: vengono meno alcuni valori, ne subentrano altri; i mass media hanno una tale influenza da riuscire a inventare, o suggerire, o istigare certi modi di compotarsi. Anche il modo di abitare oggi è diverso da quel che era al tempo dei nostri genitori: diversi sono i valori e i significati che attribuiamo alla casa, con tutti i suoi connotati morali e fisici. La famiglia si evolve, non è più quella di una volta. La mamma che fa la pasta in cucina è una reminiscenza lontana. Le persone passano più tempo fuori che dentro casa. E oggi chattiamo, non chiaccheriamo.
Se la casa era il luogo in cui stava la famiglia, ed era centro di gravità che accoglieva amici, parenti, vicini, oggi l’accoglienza diviene un fatto prevalentemente estraneo alla casa. Nell’epoca del grande turismo, dell’attività frenetica del mercato che non conosce frontiere, l’hotel è il luogo (transitorio, ma sempre luogo) dove abitano gli city user.
Dunque le camere d’albergo cambiano: sono non più solo spazi per soggiornare per tempi brevi, ma anche luoghi dove staccare la spina, e dove provare nuove emozioni.
Per conseguenza diverse sono le richieste cui dobbiamo rispondere coi nostri progetti.
Le espressioni architettoniche sono cambiate: siamo passati dal movimento moderno al razionalismo, per arrivare a una trasgressione che sempre di più contagia ogni aspetto del progettare. I fabbricati devono stupire, suscitare emozioni prima ancora di soddisfare esigenze di natura, per così dire, “vitruviana”.
Siamo ben più lontani dai bisogni primari di quel che erano le generazioni che ci hanno preceduto, e siamo tutti affascinati dalle cose strane, diverse. I fabbricati assumono a volte un carattere artistico: sono come sculture a scala urbana. Il che ovviemente incrementa il narcisismo degli autori. Anche se la responsabilità di chi progetta non è venuta meno: il fatto di mettere in quell’angolo, in quella piazza, in quella posizione un edificio significa sempre incidere su chi ci vive o anche solo ci passa vicino. C’è, evidente nell’architettura come anche nel design, un aspetto condizionante. C’è sempre stato, beninteso, ma credo che oggi questo effetto sia ben maggiore.
Per quanto mi riguarda, sono convinto che i progetti debbano armonizzarsi col genius loci, ovvero con i riferimenti storici e ambientali in cui si inseriscono: ritengo che questo sia un valore da rispettare. Ma d’altro canto so che il grattacielo progettato a Milano potrebbe stare anche a Singapore, a Colonia o a Londra. È il problema dell’autoreferenzialità del progetto, che tende a prescindere dalla contestualità.
Ma resta la domanda: perché quel progetto? a che cosa serve? quali sono i suoi contenuti? Il problema è assai vasto e riguarda gli stessi piani di governo del territorio, che entrano in crisi: perché quando si tratta di programmare e gestire l’evoluzione di una città, ci si rende conto che la capacità di prevedere e interpretare finisce per essere sempre in ritardo rispetto all’evoluzione della società, la cui capacità di trasformarsi è impressionante.
Basta pensare a quanto oggi si parli di sinergie, di risparmi energetici, di bio architetture: sono concetti che neppure tanti anni fa erano quasi assenti; e oggi motivano i vari boschi verticali e tetti verdi, che si progettano nella ricerca di un nuovo approccio alla salvaguardia ambientale, al recupero della naturalità, al ritorno al “chilometro zero”.
Ovviamente l’attenzione per l’ambiente è fondamentale ma, se diventa una moda, tende a svuotarsi di autenticità e di contenuti. Tutti questi vocaboli, dal bio all’efficienza energetica, li abbiamo imparati nell’ultimo decennio, e sono quasi tutti di stampo anglosassone, ma nell’afflato della globalizzazione vi aderiamo volentieri. Per conseguenza anche i valori estetici, che tradizionalmente si fondano sulla storia, vengono mutati, per quanto di solito non se ne parli. Certamente continuamo a portarceli dentro, ma non è chiaro in che misura riescano a incidere sulla progettazione attuale.
Spesso oggi si disegna pensando al futuro, per quanto questo sia ovviamente in gran parte insondabile, e cercando di dimenticare il passato. Si dà fondamentale importanza all’emotività del presente che è a sua volta preda della frenesia e degli aspetti inevitabilmente effimeri delle mode correnti. Tra le quali spicca l’autorialità: la moda del seguire le grandi firme. Per cui nel campo dell’architettura, come anche del design, spesso avviene che sulla funzionalità e persino sulla stessa estetica dell’oggetto, prevalga il peso di chi l’ha firmato.
Qualità, funzionalità, riproducibilità: quelli che erano i valori del design sembrano passare in secondo piano. Probabilmente se non avessi i capelli bianchi non mi esprimerei così… Ma devo aggiungere che per fortuna mantengo ancora l’entusiasmo e la voglia di cercare: che comporta anche il desiderio di cambiare, inteso come intento di prescindere dalle incrostazioni alle quali, arrivati a una certa età, ci si abitua. Perché quando un architetto arriva al successo, spesso finisce con lo sclerotizzarsi: pensa che quel che ha dato un buon risultato una volta, se riproposto otterrà gli stessi effetti. Non è quasi mai vero. Occorre invece mantenere l’entusiasmo e il fascino per il foglio bianco, il gusto dell’inventare qualcosa che ancora non esiste, e che provochi stupore.
Ecco che, quando progetto, cerco di evitare l’affannosa rincorsa alle mode correnti, ma di contemperare i concetti di bellezza, di compatibilità, di storicità (quel che riguarda la tradizione e il genius loci), con l’estetica attuale e con la proiezione verso il futuro. Mi chiedo come l’oggetto che sto creando possa catturare la vista, reagire ai suoni, accompagnare i profumi… Insomma, come si comporti rispetto a tutti i sensi. E devo dire che, riguardo a questa attenzione a tutti i sensi dell’essere umano, per me un’esperienza di grande rilevanza è stato lo studio che ho compiuto per progettare il Parco Termale di Pescantina. Perché qui quegli aspetti sono tutti fondanti: le terme sono l’ambiente del benessere. Dove la persona deve sentirsi accolta, accudita, cullata…
Le terme sono un luogo entrando nel quale mi tolgo la giacca e abbandono lo stress: è un po’ come andare in un mondo nuovo. Uno spazio differente, in cui si evade dalla quotidianità: per sognare, ma in modo tale che nel sogno si possa ritrovare la verità del proprio essere; recuperando la capacità di commuoversi, magari di ridere o di piangere, di vivere le emozioni che altrimenti nascondiamo, di recuperare percezioni che magari neppure sappiamo di avere. Di scoprire quelle emozioni e quei sentimenti che sono le componenti fondamentali dell’essere umano.
E questo riguarda anche il rapporto con gli altri. Penso che anche nel cinema avvenga qualcosa di simile: non ci si va solo perché lo schermo è grande e il suono coinvolgente, ma anche per condividere un’esperienza emotiva, allontanandosi dall’abitudine all’atomizzazione.
Dunque quando progetto anzitutto cerco di capire per chi lo faccio, quali sono i suoi bisogni, tenendo conto di quanto è avvenuto in questa società che vive nei centri commerciali, in metropolitane affollate di persone intente a guardare lo smartphone, che non comunicano e si estraneano dalla realtà che li circonda.
E poi è noto che la società sta invecchiando, e la percentuale di anziani continua a crescere… bisogna tenere presente anche questo aspetto, e cercare di progettare spazi e luoghi in cui tutti possano vivere al meglio la loro vita. Senza riproporre amarcord, ma cercando modi nuovi di abitare ed esperire l’ambiente, e non solo: esperire noi stessi attraverso l’ambiente.
Occorre immaginare il futuro, e progettare anticipando sempre esperienze nuove, proponendo valori che vadano oltre la tradizione ma senza dimenticare o rinnegare il passato. Preparando condizioni di benessere, in cui l’individuo possa essere in pace con se stesso, ma recuperando anche il rapporto con gli altri.
marzoratiarchitettura.it
Giancarlo Marzorati
Dopo aver maturato le sue prime esperienze in un’impresa di costruzioni, intraprende la professione collaborando anche con altri studi di Milano. Il suo Studio di Architettura firma opere che si trovano in gran numero in tutto il territorio del Milanese e dello hinterland. Molteplici sono anche gli edifici da lui realizzati nel resto d’Italia e all’estero. Nella sua città, Sesto San Giovanni, i suoi lavori contribuiscono in modo fondamentale al processo di riconversione delle grandi aree industriali in luoghi del terziario avanzato, e tra i grandi complessi per uffici qui realizzati vi sono le sedi di importanti Società quali Impregilo, Oracle, Novell, ABB, Alitalia, Inail, Campari… La poliedricità e versatilità di Marzorati lo portano ad affrontare differenti temi, sia attraverso la progettazione del nuovo, sia attraverso il restauro e la ristrutturazione: centri commerciali, complessi residenziali, ecohousing, cinema multisala e auditorium, teatri, alberghi, un aeroporto, parcheggi, terminal, centri sportivi, installazioni industriali, chiese, scuole, ospedali, infrastrutture stradali, ponti, piazze, sculture urbane, arredi, oggetti di design, centri benessere e parchi termali… A questi ultimi si sta dedicando con particolare impegno da alcuni anni, esprimendo la sua personalità di progettista attento allo studio delle forme progettate nel contesto, urbano o rurale, ponendo l’attenzione anche alla massima funzionalità e agli aspetti ambientali e storici connessi. Ha vinto diversi concorsi nazionali e internazionali. È stato il primo architetto a presiedere l’Associazione Laureati del Politecnico di Milano.